Il sonoro dell'anima

Il sonoro dell’anima
La casa di Goffredo Parise a Salgareda e il suo ambiente naturale

Maria Gregorio, ICOM Italia

Relazione presentata al convegno annuale
 dell’International Committee for Literary and Composer Museums (iclm)
Oslo, 17-21 giugno 2012


Appena ho saputo che il tema dell’incontro di quest’anno sarebbe stato “Literary and Composer
Museums and the spirit of the place”, ho immediatamente pensato che dovevo parlare delle case abitate da Goffredo Parise nella regione che egli riconosce quale sua vera patria, il Veneto: l’una, dove ha trascorso gli ultimi anni di vita, a Ponte di Piave, ma in particolare l’altra, a Salgareda, in un minuscolo borgo a pochi chilometri di distanza, sulla riva del Piave, il fiume più caro alle memorie “patrie” d’Italia.
Questa seconda è una casa di magica bellezza, in perenne dialogo con la natura fiabesca che l’avvolge. Casa e paesaggio, non soltanto racchiudono in sé e trasmettono perfettamente integro lo spirito di chi vi ha abitato e della sua opera, ma pongono anche un quesito museologico di grande interesse. Tre motivi più che sufficienti, a mio modo di vedere, per parlarne agli amici e colleghi dell’iclm.

Goffredo Parise, nato a Vicenza nel 1929 e morto nel 1986, appunto a Ponte di Piave, è uno dei grandi scrittori del Novecento italiano, tuttora molto presente ai lettori, non da ultimo anche grazie all’apertura delle due case, nel 2004, la prima, e nel 2006, quella di Salgareda.
Dalle date si desume che dopo la sua morte le case sono rimaste “nascoste” agli occhi del pubblico per circa vent’anni, durante i quali hanno avuto una sorte singolare. Racconta Claudio Rorato – alla cui cura entrambe sono affidate e alla cui sapienza io stessa mi sono affidata –, che durante quel lungo sonno nulla vi è stato modificato.
Lo scrittore, ammalato, aveva dovuto abbandonare e vendere la casa isolata in riva al fiume e ne aveva scelta una nuova, più agevole, a Ponte di Piave. Per testamento ha disposto che alla sua morte la casa, con tutto quanto vi era in essa (i particolarissimi arredi, le importanti opere pittoriche, i libri, l’archivio), andasse in eredità al Comune che l’avrebbe aperta al pubblico con il nome di “Casa di cultura Goffredo Parise”, quale oggi effettivamente porta. A sottolineare il proprio fortissimo legame con la casa, ha inoltre disposto (con una scelta di “suggestione tolstojana”) che le sue ceneri rimanessero nel giardino, sotto alla copia di una scultura di Constantin Brancusi, da lui scelta.
Al piano terra di una palazzina, il cui primo piano è stato ed è tuttora adibito a biblioteca comunale, la casa è rimasta pertanto abbandonata a quella che il curatore definisce una “incuria salvifica”. “Salvifica” perché, in attesa dell’apertura, nessuno è intervenuto a modificare alcunché, mantenendo dunque integri gli arredi, ma anche perché nell’intero edificio sono state comunque adottate le misure di sicurezza necessarie a un luogo pubblico, la biblioteca, appunto. Preservando il tutto da danni e degrado.

La casa a Ponte di Piave è oggi tra i musei più coinvolgenti dedicati in Italia a uno scrittore, ma quella su cui vorrei soffermarmi, per la sua unicità, è la piccola “casa delle fate”, come Parise stesso l’ha chiamata, che sorge a pochi chilometri di distanza, in magica solitudine, in riva al Piave.
Per comprendere quello che vorrei chiamare l’inconfondibile voce di questa casa, è necessario accennare sia pure brevemente alla storia di vita che ha legato lo scrittore a questo luogo. Dico espressamente “luogo” e non soltanto casa, perché i due elementi, la natura e l’edifico, costituiscono qui un’unità inscindibile.
Tutto ha avuto inizio come una storia d’amore tra un poeta e un luogo. Una storia che ha l’andamento della fiaba. Così, nelle parole di Parise: “Era un tardo pomeriggio di fine agosto un po’ ventilato… Due uomini si avviavano verso il greto del fiume Piave, a cavallo... L’atmosfera era strana e felice: un piccolo Eden profumato di sambuco, dove il vento leggero e già fresco volteggiava insieme ai molti uccelli… L’aria era color viola…”

Verrebbe voglia di abbandonarsi al suono delle parole del poeta, e invito ciascuno a farlo nel segreto della propria casa. Ma in questa sede è importante capire come sia stato possibile che la magia di quell’incontro e poi di quell’abitare abbiano prodotto quella che voglio chiamare una stupefacente epifania museale.

La definisco tale perché finora ho sempre considerato un errore allestire e presentare le case di scrittori pensando di ricostruire al meglio lo stato in cui si presume si trovassero quando la persona ancora le abitava. È, questo, un punto su cui ho riflettuto a lungo perché mi sembra un quesito museologico centrale soprattutto nei musei legati alla memoria di una persona e della sua opera.
In proposito voglio ricordare un passo illuminante della relazione presentata da Katarina Ek-Nilsson all’incontro tenuto dall’iclm a Stoccolma nel 2005, là dove scrive: “Di una cosa dobbiamo essere perfettamente consapevoli: la casa che vogliamo aprire al pubblico e su cui vogliamo riflettere corrisponde all’interpretazione e alla rappresentazione culturale di una realtà passata, basate entrambe sullo studio della persona che vi ha abitato un tempo e sullo studio del contesto storico e sociale. Pertanto, la casa che diventa museo è, di fatto, una struttura che riflette non già la vita di una precisa persona bensì l’interpretazione che di quella vita danno curatori, studiosi e altri. Tra questi aggiungiamo, non ultimi, i visitatori con le loro aspettative”.

Su questo punto cruciale – quale debba essere la rappresentazione nelle case museo, scegliendo di abbandonare per sempre ogni forma di passiva ripetizione – ho trovato di recente un nuovo importante spunto di riflessione in un geniale monito di Sigmund Freud, là dove afferma che “ripetere è il contrario di ricordare” e spiega come ogni conservazione che preveda un uso passivo della “cosa” conservata impedisca, di per sé, l’esercizio attivo della memoria. Ossia precisamente la pratica cui vogliamo dare corso nei nostri musei.
Secondo la teoria psicanalitica infatti – e oggi sappiamo che ciò vale anche nei musei – per rendere presente ciò che è assente è necessario “rappresentarlo”, ma essendo ben consapevoli che la rappresentazione mentale non è la meccanica trascrizione delle impressioni sensoriali, bensì un processo interiore. Un processo non semplice, che i musei, se vogliono assolvere il loro compito, devono indurre i visitatori ad affrontare, agevolandoli con tutti gli strumenti che hanno a disposizione nell’allestire le mostre.
Un processo, inoltre, che i musei letterari sono tenuti ad attivare forse più di altri, in quanto luoghi che pongono al proprio centro la questione della memoria e, dunque, dell’eredità. “Ereditare”, leggo nel testo di un altro psicanalista, “è un movimento di riconquista”, e riconquista, sottolinea, è “il contrario della ripetizione passiva”.

Il problema museologico che mi sono posta di fronte alla casa di Parise è precisamente questo: come è potuto accadere che una casa in cui tutto è rimasto identico sia potuta diventare, in apparente contraddizione con quanto detto sopra, un vero museo e soprattutto un museo vivo? Dove il nostro sentire di visitatori non è mai soggetto alla tentazione di rivolgersi all’indietro (“Lo sguardo dell’erede non è mai uno sguardo rivolto all’indietro”) ma, al contrario, di muovere alla conquista dell’eredità che ci viene proposta.
A quale rappresentazione ci troviamo di fronte? Frutto di quale interpretazione?
 Per capirlo e per proporre un’ipotesi di lavoro che possa risultare forse utile anche in altre situazioni affini, ho parlato a lungo della questione con Claudio Rorato. E qui, per semplicità, mescolerò le sue parole con le mie.

In primo luogo, quando si sono volute aprire le due case al pubblico, sono stati ovviamente assolti i doveri basilari di ogni musealizzazione: escludere gli oggetti dai processi dell’uso e del consumo, privandoli della loro funzione pratica e modificandone, così, “il modo di stare nel mondo” nonché rescindendo i rapporti che essi intrattenevano con i loro ambiti di origine, con la vita sociale e con quella quotidiana delle persone. Nella consapevolezza che, affinché quegli oggetti possano tornare a parlare, tali rapporti dovranno essere ristabiliti nel museo, ma in altre forme ed entro un altro sistema di oggetti, quello museale, appunto. Ne dà conferma Claudio Rorato: “La casa comunica da sola. Si è trattato di sottolineare i legami, le relazioni, le storie che esistono tra gli oggetti, i quadri, i mobili, i libri”.
In che cosa è consistito, allora, quel “sottolineare”, che qui coincide con l’interpretare, passo preliminare a ogni autentica rappresentazione museale?
Credo di poter dire che qui il lavoro museologico è consistito in prima istanza nel prestare ascolto; quindi, nell’amplificare il suono percepito nel luogo attorno, nella casa e, in ampia misura, nell’opera scritta. È peraltro fondamentale ricordare che l’ascolto si è innestato nell’interezza del corpo, coinvolgendone tutti i sensi. Viene spontaneo parlare di “vibrazioni”. Parola che, lo vedremo tra poco, ha un suo fondamento.

Spiega il curatore: “Molto è stato scritto sull’aspetto sensoriale dell’opera di Parise: anche nella casa emergono queste caratteristiche, a partire dall’esperienza visiva, legata alle molte opere pittoriche… Ma l’aspetto più penetrante di tutti è quello sonoro, non solo dato da un’alternanza di rumori e silenzi, ma da un continuo ‘sottofondo d’ambiente’ che si percepisce all’ingresso nella casa: forse non è una sensazione che si può classificare immediatamente come esperienza uditiva, ma è Parise stesso a venirci in aiuto definendola come ‘sonoro dell’anima’ e indicandola come uno dei motivi che lo hanno spinto a trascorrere l’ultima parte della sua vita lungo il Piave. Il nostro compito è stato dunque quello di amplificare tale voce”.

Provo allora a ripercorrere le tappe principali del lento processo di ascolto che – dapprima inconsapevolmente, quindi volutamente – ha trasformato in museo, quale genuina “estensione” della casa a Ponte di Piave, anche l’abitazione di Salgareda e il suo ambiente naturale.
Vi è uno scrittore che ha con la casa e il luogo che la circonda un rapporto così intimo e stretto da renderli parte integrante della sua stessa opera e viverli in quanto tale. Parise cerca una casa dove, secondo le sue stesse parole, si possa “respirare il senso del tempo sia atmosferico sia psichico”, “l’odore della vita e delle sue stagioni”. Quando la scopre, la sente immediatamente propria, vi trascorre anni fecondi di vita e di lavoro, e il suo vissuto è così intenso da trasformare in presenza fisica ciò che in quel luogo si respira e si avverte con tutti i sensi, dall’olfatto alla vista all’udito. Dominante è soprattutto quest’ultimo, l’udito: sono innumerevoli i passi in cui lo scrittore racconta l’ascolto, tesissimo, che lui per primo presta, per poi restituirlo in forma di parola scritta, a ogni segnale gli venga da quel luogo e dai suoi “abitanti”, piante, animali, “spiritelli”, fate, cose, persone. L’ascolto come processo creativo.
Ciò è vero al punto che anche coloro che acquisteranno da lui la casa, frequentandola per una ventina d’anni, non vorranno o non potranno spezzare l’incantesimo. Sia pure inconsapevolmente, hanno ascoltato quel “sottofondo d’ambiente”, lo hanno assecondato e conservato qual era, trasmettendolo a loro volta – immodificato, ma nel contempo intensamente vissuto  – a chi succederà loro nella proprietà.
Questo secondo processo di ascolto lo si può definire un ascolto di “eredi”, che non ripetono ma “riconquistano”, per poi passare il testimone a chi verrà dopo di loro. E la consegna del testimone, sappiamo, avviene esclusivamente in seguito a un tocco, con la mano. Il bastone-testimone è l’eredità: la consegniamo all’altro affinché inizi la sua corsa. Si badi, è una mano che la trasmette all’altra. Anche i musei chiedono la presenza fisica.

A questo punto è intervenuto il terzo e decisivo processo di ascolto, quello finissimo e consapevole del curatore, la cui interpretazione è consistita nella scelta di incentrare la presentazione museale sul suono e, pertanto, di non interrompere il “flusso” sonoro ma, con pochissimi tocchi, di amplificarlo per trasmetterlo a noi visitatori, nuovi eredi della casa. Ai quali pure spetta di riconquistarla ogni volta che la frequentiamo, a condizione di metterci, noi pure, in vigile, sensibile ascolto. La “rappresentazione”, qui, consiste pertanto nel mantenere integra la condizione che induce a un perfetto ascolto del processo creativo e del luogo che lo ha accolto. Consentendo a noi di trovare, a ogni nuova visita, l’occasione di innestare un processo di crescita personale.

Un’ultima osservazione per concludere. Non è stato facile tradurre l’espressione di Parise “sonoro dell’anima”. Ho chiesto aiuto a uno scrittore che ha optato per una soluzione, certamente non letterale, eppure perfetta: “soundboard of the soul”, ossia (ma in inglese il suono è più sensuale e dunque più affine al significato), “cassa armonica dell’anima”. Espressione che mi sembra amplifichi a sua volta l’originale, con una sorta di nuovo passaggio del testimone.
Sappiamo che la cassa armonica è la parte dello strumento a corde o a percussione che ha la funzione di aumentare l'intensità del suono prodotto ma anche e soprattutto di caratterizzarne il timbro, sfruttando il fenomeno fisico della risonanza. In tedesco si usa dire “Resonanzköper”, ovvero “corpo di risonanza”. Come non pensare, allora, che qui sia incarnato alla lettera il celebre modello espositivo proposto da Stephen Greenblatt nel suo saggio “Risonanza e meraviglia”, fondamentale per la nuova museologia, là dove scrive “Propongo di esaminare due distinti modelli per l’esposizione di opere d’arte, uno centrato su quella che chiamerò risonanza e l’altro sulla meraviglia. Per risonanza intendo il potere di cui è dotato l’oggetto esposto di varcare i propri limiti formali per assumere una dimensione più ampia, evocando in chi lo guardi le forze culturali complesse e dinamiche da cui è emerso e di cui l’osservatore può considerarlo un campione rappresentativo”.
Casa Parise, un modello di rappresentazione museale felicemente compiuta, incentrata sulla risonanza.


Per l’occasione che mi è gentilmente offerta di presentare sul sito di Casa Parise la versione italiana della mia relazione al convegno dell’iclm a Oslo, mi permetto di aggiungere una personalissima “risonanza” percepita a Salgareda. Scrive Emily Dickinson,

È una gioia solinga –
però innalza la mente –
con sublimi richiami –
lontano in mezzo al vento.

ascoltare un uccello
delizia senza causa -
invisibile e incessante -
una cosa dei cieli.

Da Centoquattro poesie [qui, 774], a cura di Silvia Bre, Einaudi, Torino 2011.


Un ringraziamento di vero cuore a Moreno Vidotto ed Enzo Lorenzon  proprietari della "casa delle fate" per le attenzioni amorevoli che le dedicano e per la gentilissima disponibilità ad accogliere quanti desiderano visitarla. Un ringraziamento veramente riconoscente a Francesco Tiveron, bibliotecario e responsabile della Casa di Cultura G. Parise di Ponte di Piave per la competenza e la preziosissima collaborazione.

Sono in vario modo debitrice di suggerimenti e citazioni ai seguenti testi

Manuela Brunetta “...la prima vera casa della mia vita”, in Carte libri memorie. Conservare e studiare gli archivi di persona, Materiali dalla giornata di studio organizzata da Fondazione Benetton Studi Ricerche, Treviso, 26 ottobre 2007.

Katarina Ek-Nilsson, “La casa di chi scrive”, in A. Kahrs, M. Gregorio, a cura di, Esporre la letteratura. Percorsi, pratiche, prospettive, Clueb, Bologna 2009.

Stephen Greenblatt, “Risonanza e meraviglia”, in I. Karp, Steven D. Lavine, a cura di, Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, tr. it. Clueb, Bologna 1995.

Maria Vittoria Marini Clarelli, Il museo nel mondo contemporaneo. La teoria e la prassi, Carocci Editore, Roma 2011.

Goffredo Parise, Lorenzo Cappellini, Veneto Barbaro di muschi e nebbie, Minerva Edizioni, Bologna 2009.

Silvio Perrella, “Addii, fischi nel buio, cenni”, in G. Parise, Quando la fantasia ballava il “boogie”, Adelphi,  Milano 2005.

Massimo Recalcati, “Imago patris: fallimento e realizzazione dell’eredità”, in Ivano Dionigi, a cura di, Eredi. Ripensare i padri, Rizzoli, Milano 2012.

Claudio Rorato, La casa di Goffredo Parise a Salgareda, Minerva Edizioni, Bologna 2006.

Claudio Rorato, “Il sonoro dell’anima: i luoghi e la gente di Parise. La Casa di cultura di Goffredo Parise a Ponte di Piave”, in M. Gregorio, a cura di, Le Società letterarie. Italia e Germania a confronto, Atti del seminario internazionale, 22-23 maggio 2009, Società letteraria di Verona, Verona 2010.

Mariuccia Salvati, “La memoria e le cose”, in Parolechiave,  9, Donzelli Editore, Roma 1995. Il riferimento è al testo di S. Freud, “Ricordare, ripetere e rielaborare (1914), in Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi (1913-14), in Opere, vol. 7, Bollati Boringhieri, Torino 1966-1980.

Barbara Spinelli, “Dalle Penultime cose alle Ultime”, in Ivano Dionigi, a cura di, Eredi. Ripensare i padri cit.